Conversazione modulare

Interviews by Silvia Sfligiotti
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Italian

Intervista a Peter Bilak
di Luciano Perondi e Silvia Sfligiotti

SS: Cominciamo parlando di traduzione. So che è un tema che ti interessa molto, e può essere usato anche come metafora per la progettazione grafica. Umberto Eco scrive che la traduzione può essere considerata come una forma di negoziazione con il testo, nella quale si deve cercare di dare qualcosa in cambio di ciò che viene perso da una lingua all’altra. Qual’è la tua opinione, sei d’accordo con questa idea?

PB: In genere tendo a essere d’accordo con Umberto Eco… (ride). La traduzione tra diversi linguaggi è estremamente interessante, ma ci sono limiti alla possibilità di applicarla alla progettazione grafica. È difficile parlare di traduzione quando ci si sposta da un medium a un altro: inevitabilmente c’è una certa perdita di dati. È usata spesso come metafora per spiegare agli studenti in che cosa consistono il graphic design e la tipografia: una specie di simulazione, nella quale si cerca di tradurre tutto in termini grafici. Diventa frustrante se si cerca di ottenere una corrispondenza uno-a-uno. Alla fine si tratta di interpretare ed adattare alla forma più appropriata. Quando si adatta un libro per un film, il risultato è sempre deludente, perché il medium non offre le stesse possibilità. Si devono accettare le limitazioni del medium. Sto affrontando lo stesso problema in questo momento, cercando di trovare un modo di rappresentare la danza in forma stampata. Le limitazioni del mezzo stampato sono così rigide se le si confronta alle sensazioni vive della danza. È necessario osservare le caratteristiche di un medium e dell’altro, e vedere quali cambiamenti sono necessari per far sì che la cosa funzioni.

SS: Tu hai una lingua madre, lo slovacco, una lingua con cui lavori, l’inglese, e quella del paese in cui vivi, l’olandese. Questo ha in qualche modo influenzato il tuo lavoro di type designer?

PB: Credo di si. Chi ha esperienza di vita all’estero può apprezzare veramente l’importanza delle lingue. Non ho mai studiato lingue, non sono un teorico né un linguista e non ne so abbastanza. Tutte le lingue che conosco le ho imparate con l’esperienza pratica, e quindi sono anche limitate dalla mia formazione.
Quando scrivo, tendo a fare mentalmente una traduzione simultanea, il che rende la mia scrittura molto densa e compatta, senza quelle parole che non sopravviverebbero alla traduzione. Allo stesso tempo, mi rendo conto che sono proprio quelle parole intraducibili che rendono un testo molto personale e caratteristico di una lingua specifica.
Tornando alla tipografia, da tempo mi interessa allargare il campo della tipografia latina attraverso l’influenza delle scritture non latine. Ci sono regole che sono tipiche dei caratteri latini; le altre scritture, come il greco o l’arabo, hanno una grande ricchezza che può essere utile anche per il latino: in questo modo trovo nuove possibilità per disegnare i caratteri latini. Funziona in entrambi i sensi.
Negli anni settanta e ottanta c’è stata una tendenza a latinizzare i caratteri di altre scritture, soprattutto il greco, come espressione di un orientamento politico, anziché aderire alle possibilità che ogni scrittura offre. Per esempio, il greco non usa un contrasto verticale rigido ma qualcosa di più flessibile, derivato dalla scrittura semitica. Stiamo tornando alle radici solo ora, dopo essercene allontanati negli ultimi decenni.
Comunque, conoscere più lingue ci rende più ricchi come persone, e ci dà possibilità che possiamo usare nel lavoro e nella nostra vita personale.

SS: Ieri (durante la conferenza allo IED, ndr.) nel presentare il tuo lavoro ti sei concentrato soprattutto sul processo: stavi parlando a dei grafici e in questi casi può essere davvero più interessante pensare al processo e trascurare magari il risultato visivo finale. Ma nella realtà il risultato finale è quello che comunica e del processo non rimane traccia. Come affronti questa cosa nel tuo lavoro?

PB: La affronto ogni giorno. Insegnando, incontro sempre studenti o ex-studenti che cercano di lavorare veramente. Confrontano l’esperienza fatta a scuola con quella che hanno nella pratica, lavorando con le aziende, e si lamentano sempre: “Il cliente non capisce il mio lavoro, non posso fare quello che voglio”. Non darei la colpa al cliente. È una negoziazione tra due parti, e non si può scaricare la colpa su una sola. Ho il sospetto che spesso qualcosa non funzioni nella comunicazione, e quello che non funziona è la spiegazione del processo. Il più delle volte quello che cerchiamo di fare è coinvolgere le altre persone nel processo. Se non lo si fa a sufficienza ci possono essere incomprensioni. Se si arriva a un risultato e lo si presenta a qualcuno che non ha idea di come ci si è arrivati, è davvero difficile capire un progetto.
Recentemente ho dovuto scrivere un saggio sulla tipografia sperimentale e ho iniziato a pensare a possibili esempi di sperimentazione. Mi sono reso conto che non appena arrivi a un risultato non si tratta più di sperimentazione, ma solo di un risultato. La sperimentazione è il processo che ti ci ha portato. Espressioni come ‘design sperimentale’ o ‘orientato al processo’ sono pleonastiche, perché ogni design è basato sul processo, e ogni design è sperimentale: si devono trovare nuove soluzioni per problemi diversi.
Quando presento il mio lavoro, penso che sia importante sottolineare le informazioni di partenza e la risposta trovata, in modo che si possa vedere il percorso, anziché fare come se si trattasse di un’opera d’arte, di fronte alla quale si dovrebbe capire da soli di che cosa si tratta.

SS: Questo è ciò che accade con il cliente. Ma alla fine questo progetto è visto dalle persone nel mondo reale, in strada, e in quel momento non è possibile sapere nulla sul processo che c’è dietro…

PB: Certo, inevitabilmente. Ma credo che concentrandosi sul processo e coinvolgendo le altre parti in causa si riducano le possibilità di sbagliare la comunicazione, perché si guarda alla stessa cosa da prospettive diverse. Invece di cercare di imporre la propria prospettiva, si dovrebbe cercare di tenere conto di altri punti di vista, immaginando che cosa succede quando si vede un progetto e si cerca di capire a che cosa serve e come può essere interpretato. Faccio dei mini-test per capire cosa succede quando un lavoro è visibile in strada, ma lo faccio prima che sia in strada.

SS: Prima hai parlato di insegnamento. Come mai hai deciso di insegnare?

PB: La maggior parte delle cose che faccio, per quanto possano sembrare abili decisioni di carriera, non lo sono: non ho mai deciso di vivere in Olanda, non ho mai deciso di insegnare, non ho mai deciso di disegnare caratteri. Queste cose sono successe perché molte altre cose sono successe prima. Per esempio: noi abbiamo deciso di fare questa intervista, ma se non avessimo spostato le nostre sedie un momento fa adesso staremmo di sicuro facendo qualcos’altro. _[Nota: durante l’intervista nel cortile dell’Aiap, una grossa finestra è caduta esattamente nel punto in cui si trovavano LP, SS e PB. Per fortuna, si erano spostati un minuto prima per sedersi in un punto più soleggiato]._ Puoi partire con le migliori intenzioni, ma devi anche reagire alla situazione in cui ti vieni a trovare.
Ci sono molte piccole ragioni per le quali sono venuto in Olanda, tutto è successo al momento giusto. Con l’insegnamento è lo stesso: di tanto intanto tenevo una conferenza o un workshop, e mi accorgevo che funzionava. Mi piaceva, e un giorno qualcuno mi ha chiesto se avevo voglia di provare per un semestre. Non credo che l’avrei deciso spontaneamente, ma quando ti si offre la possibilità e ci pensi… ci provi, la peggior cosa che può succedere è che rinunci dopo sei mesi.
Ho insegnato in diverse scuole. Ho iniziato ad Arnhem e mi piaceva molto, ma era un po’ stancante per via dei viaggi. Adesso insegno alla scuola post laurea dell’Aia (alla KABK, Accademia Reale di Arti Visive, ndr.), ed è molto diverso dall’insegnamento a livello universitario: le persone sono molto più mature. Per me non è tanto insegnare quanto osservare quello che fanno ed essere una specie di stimolo per il loro lavoro.

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LP: Puoi fare qualche esempio? Come si svolge il tuo corso?

PB: Preparo una serie di lezioni su temi specifici, che penso possano essere utili. Propongo un tema, per esempio progettare i segni diacritici per una lingua specifica, e a partire da questo tema preparo una serie di esercitazioni. Cerco di avere dei contributi da parte degli studenti, così spesso anche loro preparano delle lezioni. Questa è una caratteristica degli studenti già laureati, che sono molto più maturi e in grado di articolare le loro idee. È sorprendente vedere quanto lavoro può essere fatto in uno o due semestri. Il corso in cui insegno fino a poco tempo fa era di due anni, ed è stato ridotto a uno: non ho visto nessuna differenza in termini di risultati. Gli studenti sono in grado di produrre altrettanto e altrettanto bene.
Il corso si chiama “Type and Media” e si occupa in modo specifico di type design; tra gli insegnanti ci sono ottimi type designer: Frank Blokland, Erik van Blokland, Just van Rossum, Peter Verheul, Petr van Blokland, Christoph Noordzij, Fred Smeijers, Gerard Unger, il meglio del type design olandese. Quindi non penso che sia necessario che io parli molto di come si disegnano i caratteri o di aspetti tecnici. Piuttosto mi occupo di temi collaterali. Le lingue e i caratteri non latini sono un tema di cui parlo sempre più spesso. Cerco di dare molte esercitazioni, altrimenti il corso diventa troppo teorico. E cerco di spiegare quali sono le possibilità del type design, facendo confronti con altre discipline, vedendo quello che succede in architettura o in letteratura quando hai dei limiti molto precisi ma puoi ugualmente fare molto di più di quello che pensi.
La scuola dell’Aia ha un suo metodo, un po’ chiuso in se stesso; è ispirato a Gerrit Noordzij e alle sue teorie sul rapporto tra scrittura e tipografia, che sono necessarie per capire in modo pratico la struttura dei caratteri. Ma non ci si può fermare lì, non lo si può vedere come il punto di vista definitivo sul type design.

LP: Qual è la tua idea sull’insegnamento del type design?

PB: Non credo che sia una buona idea insegnare type design in una normale accademia d’arte: è troppo presto, ci sono molte altre cose che credo sia utile imparare prima. Quando insegnavo all’Accademia di Arnhem, non insegnavo type design, parlavo piuttosto del suo significato e delle sua funzione, così come si fa con gli altri strumenti e media, cercando di illustrarli tutti. Bisogna darne un’idea di massima, ma se qualcuno è interessato può approfondire le sue conoscenze in seguito. C’è una fase per ampliare le proprie conoscenze e un’altra per focalizzarle su un settore.
Nei corsi post laurea ci si può veramente specializzare, concentrarsi su qualcosa. Ma non è possibile concentrarsi prima di aver visto qual è il ventaglio delle possibilità. Sarebbe un errore specializzarsi troppo presto: in questo modo si formano persone di vedute ristrette. È un problema di molti type designer.

LP: Credi che sia importante insegnare grafica a chi non è un designer?

PB: L’insegnamento, come ogni altro scambio di informazioni, deve essere un dialogo. È necessario che ci sia un interesse da parte di queste persone. Se questo insegnamento fosse imposto, non sarebbe accettato, Ma se gli studenti trovassero un interesse nel linguaggio visivo e nel suo funzionamento, allora si potrebbe fare.
In un certo senso, credo che la sfida più grande per i designer sia di imparare a parlare a un pubblico più ampio. Alcune persone che ammiro molto cercano proprio di trovare un nuovo linguaggio, non un gergo per specialisti. Pensa a Rick Poynor, il critico inglese: il suo contributo più importante non lo dà scrivendo per Eye o Emigre, ma sui quotidiani. Scrive di design sul Guardian: deve quindi trovare un vocabolario diverso per parlare di questi temi a un pubblico più ampio. I critici cinematografici parlano ogni giorno di cinema su televisione e quotidiani, perché trovano il modo di parlarne in termini molto ampi. I designers tendono a essere molto specifici, e i loro articoli possono essere pubblicati solo su riviste di settore. Ma se si riuscisse a trovare un linguaggio comprensibile a un pubblico ampio, sarebbe solo un bene.

SS: Qualche anno fa hai iniziato a pubblicare la rivista Dot Dot Dot, con Stuart Bailey. Inizialmente l’avete chiamata ‘rivista di grafica/comunicazione visiva’, ma ora sembra più una rivista per grafici, per chi fa questo lavoro e sente il bisogno di attingere ad altre discipline per trovare nuove idee.

PB: Abbiamo tolto il sottotitolo ‘rivista di grafica/comunicazione visiva’ dopo tre numeri, credo. Quando l’abbiamo iniziata la pensavamo come una rivista di graphic design, dato che è il nostro mestiere. La domanda che ci siamo posti era “che tipo di cose dovrebbero esserci in una rivista di grafica?”, il che è piuttosto limitante, perché alla fine si finisce per fare quello che fanno le altre riviste: cercare progetti intelligenti da pubblicare. Dopo un po’ ci siamo resi conto che il nostro lavoro non rimane chiuso in se stesso, ma ogni progetto è diverso: si può lavorare con l’architettura, la fotografia, la matematica… non ci sono limiti ai temi sui quali si può lavorare come designer. Cerchiamo di applicare la stessa idea alla rivista: non ci sono motivi per cui temi come cinema, musica, letteratura non dovrebbero essere nella rivista. Credo che l’unico collegamento con la grafica sia che Stuart e io abbiamo studiato graphic design. Adesso la rivista parla di tutto tranne che di grafica, parla di tutte quelle cose che in fondo definiscono la grafica, che non è fine a se stessa, ma ha bisogno di altre discipline per essere definita.
Come ogni altra cosa, la rivista sta cambiando. Non c’era un preciso progetto editoriale. Abbiamo iniziato parlando di grafica, e poi abbiamo iniziato ad essere più liberi al proposito; adesso dobbiamo capire se la cosa ha ancora senso, o capire che cosa può succedere nella prossima fase.

SS: Negli ultimi anni hai curato due mostre di grafica. La prima nel 2000, alla Biennale della Grafica di Brno, e ne stai preparando un’altra per l’edizione di quest’anno. Che cosa pensi dell’idea di mostrare lavori di grafica in una galleria, che non è il contesto per il quale stono stati progettati?

PB: È davvero una coincidenza che tu me lo chieda perché la nuova mostra affronta proprio questo tema. Si intitola Graphic Design in the White Cube, in cui il cubo bianco è la galleria, con tutti i suoi significati impliciti: l’isolamento dal mondo reale, la creazione di uno spazio utopico riservato a una élite. Il graphic design è fatto per essere visto in un contesto, in strada, in una libreria, in un negozio.
Quando ho curato la prima mostra a Brno il problema era lo stesso. In quel caso presentavo progetti olandesi nella Repubblica Ceca: la maggior parte dei libri e dei poster erano in olandese, la gente non poteva vedere il contesto in cui erano stati fatti, i lavori si riducevano a semplici immagini – in genere belle immagini, che potevano essere ammirate ma non capite. In quel caso, la soluzione è stata di cercare il brief originale del progetto e di tradurlo, mostrandolo accanto al lavoro. Così c’era l’incarico (ciò che era stato chiesto al designer) e il risultato, e con il pubblico si ricreava questo triangolo “pubblico – cliente – lavoro finale” che simula la realtà.
Per la nuova mostra ho cercato qualcosa di ancora più diretto. Mi era stato chiesto di organizzare una mostra “affascinante”, cosa piuttosto difficile. Ci si aspettava che io scegliessi i “migliori” designer, secondo un criterio qualsiasi, raccogliessi il loro lavoro e lo portassi in mostra. Anche qui, si sarebbe perso il contesto, non si sarebbe capito cosa avevano fatto e come. Quindi, invece di fare un’ampia selezione di persone, ho scelto diciotto designer che lavorano spesso su progetti autoprodotti – sono quindi spesso anche autori – e ho chiesto loro di progettare un poster per questa mostra di grafica. I diciotto poster sono in mostra nella galleria, e altre copie sono affisse nelle strade di Brno come una sorta di invito. È una cosa autoreferenziale, un serpente che si morde la coda, ma in questo modo si può documentare l’intero processo, cosa difficile da fare a posteriori. Tutti gli schizzi e i sottoprodotti che sono stati fatti durante il progetto fanno anch’essi parte della mostra.
Questa volta i poster sono fatti per la galleria; la galleria ha dato loro un contesto ed è quindi il posto migliore in cui vederli. I designer hanno avuto immagini dello spazio, hanno dovuto pensare alla collocazione nella città di Brno, al contesto della Biennale; hanno avuto l’intera storia, e dovevano reagire a tutto questo. Ho avuto risposte molto interessanti. Avevo invitato diciannove persone, ma uno degli studi, M/M Paris, ha declinato l’invito: hanno preferito invece scrivere un saggio sul tema.
Quello che fa alla fine questa mostra, piuttosto che parlare di immagini, è chiedersi come si può presentare il design, se abbia senso presentarlo in questo modo, e proporre se stessa come una soluzione. Vedremo se funzionerà, perché va vista sul posto.

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LP: Cosa pensi del possibile futuro del type design? E qual è la tua opinione sul type design contemporaneo?

PB: Mi è sempre interessato il passato e anche la sua influenza sul futuro, ma quello di cui mi sono reso conto ora è che qualsiasi cosa facciamo la facciamo ora. I miei lavori migliori sono proprio quelli che rispecchiano il presente. Se cerco di trovare soluzioni futuristiche, non funzionano mai. Di recente ho partecipato a un concorso per il logo della candidatura di Lipsia alle Olimpiadi del 2012, e ho trovato la cosa molto interessante, perché si trattava di un logo destinato a funzionare non ora, ma quasi dieci anni dopo. Se guardi i logotipi delle varie edizioni delle Olimpiadi, è evidente che sono stati disegnati dieci anni in anticipo, e non funzionano. La cosa migliore che possiamo fare, anche in generale nel vivere la nostra vita, è di concentrarci sul presente.
Qualsiasi cosa fatta oggi è contemporanea. Anche i revival di caratteri storici in realtà non sono veramente tali, perché sono fatti dalla prospettiva di oggi. Se lavori su un revival di Fournier, non lavori nelle sue stesse condizioni, hai conoscenze molto più ampie, strumenti diversi, ed è naturale sfruttarli al massimo, come Fournier faceva con i suoi strumenti. Per continuare veramente il lavoro di Fournier si dovrebbero utilizzare gli strumenti di oggi e riprendere piuttosto il suo metodo di lavoro.
Ciò che facciamo oggi è contemporaneo, ma è anche storico, perché non si può non fare riferimento agli esempi che già esistono. Quando lavoro, uso tutte le invenzioni che altri designer hanno realizzato prima di me, lavorando in modo poli-storico. Puoi decidere di usare queste cose o meno nel lavoro che fai oggi, ma questo significa che il tuo lavoro è fondato sulla storia.

SS: Guardando gli schizzi del tuo carattere History, viene da pensare che la storia dei caratteri tipografici non sia altro che una serie di leggere variazioni su un tema, quello delle lettere della classicità. Qual’è in realtà l’idea dietro a questo carattere? È solo una ricerca speculativa o puoi immaginarne un utilizzo concreto?

PB: Questo carattere in fase di sviluppo è collegato a un altro progetto, una proposta respinta per il carattere delle Twin Cities, nella quale anziché disegnare un nuovo carattere proponevo di usare ogni giorno un carattere diverso, seguendo un ordine cronologico dalle origini al presente: l’obiettivo era di far conoscere la storia della tipografia a un pubblico non specializzato.
L’idea rimane la stessa: la storia della tipografia è un progresso continuo sul quale noi costruiamo. È un’evoluzione lenta che ci consente di progredire. Il lavoro di Bodoni non sarebbe stato possibile senza il lavoro degli incisori di caratteri del cinquecento, né quest’ultimo senza le iscrizioni romane, né queste senza le lettere lapidarie greche, e così via. Volevo identificare alcuni di questi contributi storici per vedere se era possibile trarne un sistema coerente.
In questo momento è ancora una ricerca speculativa, anche se qualche volta ho desiderato di avere un carattere così modulare, al quale aggiungere o togliere le grazie, o cambiare il contrasto se mi serviva. Questo carattere a più livelli potrebbe essere una risposta.

SS: Si può reagire in molti modi alla presenza della tecnologia nel nostro lavoro. I più la accettano come lo strumento disponibile allo stato attuale, altri sembrano reagire contro di essa. Altri ancora cercano di spingerla più avanti per ampliare le possibilità del design. Qual è il tuo approccio?

PB: È chiaro che la tecnologia è qui e non se ne andrà, per cui è ragionevole accettarla. D’altra parte, vale la pena di mettere in discussione alcune delle convenzioni e delle limitazioni che porta con sé. Per esempio, la maggior parte del software è stato scritto da ingegneri che avevano ben poca idea dell’utilizzo pratico che se ne sarebbe fatto, perciò ci sono delle limitazioni che frenano la creatività dei designer. Il design unisce razionalità e intuito, e inevitabilmente ha spinto in avanti la tecnologia piuttosto che esserne spinto.
A L’Aia ci sono diverse persone che sono abili sia come designer sia come programmatori, Just e Erik (van Rossum and van Blokland di Letterror, ndr) sono probabilmente l’esempio migliore. Non sono bravo quanto loro, ma per fortuna ci sono persone con le quali posso collaborare. Per la performance di danza Due a Due è stato realizzato un software ad hoc, perché non ne esistevano di adatti. Condivido il mio spazio di lavoro con Edwin e Bart (de Koning e van der Ploeg), che sono programmatori e hanno realizzato il VJ software Resolume, e loro mi hanno aiutato.

LP: Come si possono collegare graphic design e scienza? C’è una possibile evoluzione delle loro relazioni? In che modo la grafica può lavorare per la scienza?

PB: Per essere onesto, non ne so abbastanza di scienza, per cui non avrai risposte molto significative da me. Ho pensato alla scienza quando stavo scrivendo il saggio di cui dicevo prima sulla tipografia sperimentale: cercavo una definizione scientifica di esperimento. In campo scientifico, se si fa un esperimento c’è una metodologia di lavoro, che prevede che si formuli un’ipotesi prima di iniziare: si definisce quello che si vuole fare, e alla fine si verifica se corrisponde o meno ai risultati attesi.
Nel campo del design questo non si può applicare, perché se si potesse sapere prima il risultato, non si tratterebbe di un esperimento. Un procedimento sperimentale significa provare diverse strade, ma non ci sono criteri precisi come nella scienza per verificare che l’ipotesi corrisponda ai risultati ottenuti.
C’è qualcosa di caratteristico nel campo in cui lavoriamo, ed è che non si lavora solo con la ragione, ma anche con l’intuizione, cosa che è in contraddizione con la scienza. Un esperimento scientifico deve poter essere ripetuto da qualcun altro perché la sua validità sia verificata. Quando si tratta di design, non è possibile ripetere un esperimento: con un diverso designer si avranno risultati diversi, e quindi non si tratta di un esperimento in termini scientifici. Ci sono cose che non possono essere facilmente applicate dalla scienza al design, o viceversa. Ma ce ne sono altre che possono essere fonte di ispirazione – Oulipo è un buon esempio di fusione di due cose diverse – anche se non del tutto: si può prendere qualcosa in prestito, qualche aspetto metodologico, senza essere troppo dogmatici.

LP: Questo per quanto riguarda i parallelismi tra grafica e scienza. Ma possono far parte dello stesso processo, possono mescolarsi per arrivare a nuovi risultati?

PB: Come?

LP: Lo chiedo a te.

PB: Non lo so.